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Il Lenghelo

Il Lénghelo
Tratto dal libro "Storie di streghe, fantasmi e lupi mannari nei Castelli Romani"
di Roberto Libera

.....“Ad Albano viveva una anziana coppia che voleva raggiungere la figlia, trasferitasi dopo il matrimonio alla cittadina di Frascati, ma non potevano vendere casa perché c’ era il Lénghelo, e la cosa si era risaputa in giro.
I compratori giravano alla larga; i sensali non ne volevano sapere; quando qualcuno chiedeva informazioni sulla casa in vendita, costoro storcevano le labbra, allontanavano con un gesto simbolico il maleficio.
Quelli che abitavano sotto lo “Scarparo” (soprannome del proprietario dell’abitazione infestata), raccontavano in giro che sentivano certi strilli a certe ore strane della notte.
Un giorno Scarparo e sua moglie erano andati alla gita dei reduci di guerra, ad Anzio, nella zona marina.
Lei aveva lasciato ogni cosa in ordine, com’era suo solito, ma, al ritorno, avevano trovato l’appartamento sottosopra, senza alcun furto.
Porta regolarmente chiusa, finestre serrate, il gatto buono buono sopra la stufa spenta, ma il carbone… il carbone era seminato sui pavimenti, mentre sui muri erano disegnate delle croci nere storte.
Poi, sul lavandino della cucina, c’erano due pettini con tanti capelli infilati fra i dentacci sporchi.
Erano capelli bianchi.
A chi potevano appartenere, se loro, la coppia, ancora non avevano sbiancato nonostante l’età ?
Allora ?
Ecco !
Erano i capelli della povera madre morta.
Sì., li riconosceva: erano le chiome bianco sporco della povera madre.
E chi le aveva portate lì dalla tomba ?
Detto fatto, il giorno dopo, a buon’ ora, andò a camposanto.
Si portò dietro Ménica, che sapeva parlare con i morti.
Ménica si mise in ginocchio, sfrigolò nelle mani l’orzo, lasciò cadere le pagliette e la polvere di pula sulla terra della tomba, e recitò alcune formule magiche.
Quando passò il prete che era andato a dire la messa mattutina alle anime del Purgatorio, esse nascosero il viso nella sciallona nera, e finsero di stare a pregare.
Ménica ebbe una specie di tremito; sbiadì; disse con voce strozzata e fioca: “E’ stato o lénghelo !!!”.
Basta: c’era un fantasma dietro le mura domestiche di Scarparo.
Un fantasma dispettoso, cattivo, iracondo, o forse soltanto giocherellone.
Fatto sta che la vita della coppia era andata in frantumi; i vicini orecchiavano, chiedevano, malignavano.
Qualcuno, anche dai vicoli intorno, e dai palazzi schiacciati fra loro, la notte si lamentava a voce alta affinché tutto quel chiasso smettesse.
Erano tempi in cui né radio, né televisore turbavano la quiete notturna.
Cosa fare ?
Era necessario esorcizzare quel pandemonio.
Scarparo e Sòrica non erano più padroni della loro intimità: tutto in piazza.
Scarparo lanciava cuscini e maledizioni al vento, ma quell’ombra slavata spariva fra i muri, e non si faceva acchiappare.
I coniugi erano stremati, né bastava loro conoscere le confidenze di altre persone che avevano passato gli stessi guai coi léngheli.
Una disse che forse non si trattava di un solo spirito, ma di tanti.
I léngheli si annidano, fanno la “nnida”, si radunano dove stanno bene. Bisogna andare a Velletri, a chiamare il santone.
Poi ci ripensarono, perché c’era una strega nelle campagne, sperduta oltre monte Savello.
Era una “furaschiera”, mezza ciuciara e mezza castellana, che bisognava trasportare col bovo bianco.
Lei non poteva operare prodigi se viaggiava coi muli, o con gli asini; si e no coi cavalli, ma quelli chiari.
Ci voleva un bue candido.
Così fu fatto.
La vecchia, immensa nella mole, portò con se una ragazzetta pallidissima, con gli occhi slavati come acqua nelle orbite senza pennazze, la quale reggeva in braccio un grosso canestro di canne intrecciate, il cui contenuto era coperto da una salvietta nera stellata.
Quando il bovo giunse solenne e muto all’imbocco della strada selciata, una folla vociante si assiepava intorno alla casa dei misteri.
L’atmosfera era tesa, come per una dichiarazione di guerra o di armistizio.
Molte donne avevano la scopa in mano.
La scopa, si sa, scaccia via i satanassi e le streghe.
Tiene lontani dalla casa i malefici.
“Gliu Sali lu tenite?”, chiese la vecchia con occhi ridenti e paurosi.
Si, il sale c’era.
E anche l’olio.
Il grano lo aveva portato lei.
Con gesti religiosi, in un’atmosfera da grandi avvenimenti, ordinò di chiudere la porta e di lasciare fuori gli estranei.
Entrarono solo Scarparo e Sòrica, la ragazza silenziosa spettrale e, naturalmente, la santona.
In un linguaggio poco comprensibile disse: “Eccheli, li sentu, cevu !”.
“Và via bruttu demoniu! Sciò!”, fece agitando le mani a uncino.
Spalancò le imposte, affinché, come mosche spinte dall’asciugamani sventolato, lo sciame di léngheli uscisse all’aria luminosa, dileguandosi.
“Lu sole li squaia…ah ah ah ah…”, gracchiò come la strega di Biancaneve quando la giovane imprudente azzannò la mela mortale.
Poi seminò i pavimenti di chicchi di grano, come un agricoltore le zolle aperte; e aggiunse sale, ordinando di non calpestare nulla, per amor di Dio e dei santi.
Quindi si unse la fronte di olio vergine, e vomitò nel suo fazzolettone grigio un liquido giallastro dalla bocca aperta a forno; e ruttò forte.
Poi disse stremata, dopo un certo tempo, declamando: “ So esciti!”.
La folla immensa che cresceva per attendere il risultato, si disperse chiacchierando a gran voce, come un fiume in piena, quando la vecchia scese trionfante e visibilmente provata.
La ragazza aveva in testa, a mò di cappello, rovesciato, il canestro.
“Stanotte recita tante requiameterna”, ordinò con la mano a metà viso la vecchia.
Risalita sul cariòlo trainato dal paziente gigante bianco, nel silenzio del giorno alto, come in trionfo, ridiscese alle campagne, soddisfatta di aver risolto un problema grave: e non volle accettare nemmeno un bicchiere di vino.
I coniugi pulirono casa dalle granaglie e dal sale, ma avevano avuto ordine di non gettarli alla immondizia, ma di conservarli in un sacco di pelo tosto, mischiati, e di metterlo dietro la porta di entrata, possibilmente di abituarci il gatto a dormire sopra, perché.....
.....i gatti sono animali magici…”.

Racconto del Lenghélo di Albano dalla narrazione di Aldo Onorati.


La credenza che in alcune case possano albergare gli spiriti di persone defunte è radicata in tutte le tradizioni popolari europee.
Già nell’antica Grecia erano noti fenomeni soprannaturali riguardanti apparizioni di spettri all’interno di edifici abitati.
Anche presso gli antichi Romani si riteneva che gli spiriti degli antenati, in un determinato periodo dell’anno, tornassero a fare visita alla casa in cui erano vissuti.
Con molta probabilità da queste divinità domestiche dei nostri padri discende la credenza del Lénghelo.
Il nome di questo strano spirito è presente con varie sfumature dialettali nell’area castellana.
A Genzano e a Marino è chiamato sia
Lénghelu che Léngheru; ad Ariccia è chiamato Lénghero; ad Albano Laziale Léngolo o Lénghelo e lengheletto; a Velletri e a Lariano Léngheglio.
E’ simile nel comportamento e nelle caratteristiche a molti spiriti domestici rintracciabili nelle storie del folklore della penisola italiana.
Appartengono a questa schiera: il
Patruneddu di casa e il Monacheddu in Sicilia; il Monacieddu o lo Scazzamurieddu nel salentino; il Laùru a Lecce, il Monachicchio in Basilicata, il Monaciello a Napoli, il Linchetto a Lucca.
Secondo l’opinione popolare si riteneva che questi spiriti fossero anime inquiete di persone scomparse prematuramente costrette a rimanere sulla terra per il periodo corrispondente agli anni che avevano ancora da vivere.
La loro ‘dimora terrena’ era quella della casa in cui avevano abitato quando erano in vita.
La loro azione era rivolta a produrre scompiglio in casa, il loro divertimento più grande era quello di creare il disordine rovesciando gli oggetti domestici, procurando rumori strani, sfiorando o, se contrariati, picchiando i residenti della casa stessa.





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